Pellegrino Artusi, nel celebre La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene del 1891, alla ricetta n. 55 (la prima della sezione Minestre asciutte e di magro) riporta questa ricetta per i Tortelli:
“Ricotta o raviggiuolo, oppure l’una e l’altro uniti, grammi 200.
Parmigiano, grammi 40.
Uova intere n.1 e un rosso.
Odore di noce moscata e di spezie.
Un pizzico di sale.
Un po’ di prezzemolo tritato.
Si chiudono in una sfoglia fatta come quella dei cappelletti e tagliata con un disco rotondo alquanto più grande. Io mi servo del disco n. 195 [il disco ha un diametro di 8 centimetri ndr]. Si possono lasciare colla prima piegatura a mezzaluna, ma è da preferirsi la forma dei cappelletti. Si cuociono nell’acqua salata a sufficienza, si levano asciutti e si condiscono a cacio e burro.
Con questa dose ne otterrete 24 o 25 e possono bastare, essendo grandi, per tre persone.”
La composizione del ripieno è praticamente identica a quella ancora oggi utilizzata per i tortelloni alla bolognese o tortelloni di vigilia, chiamati così perchè venivano preparati nei giorni dell’anno in cui non si poteva mangiare carne come, appunto, la vigilia di Natale. Le uniche differenze che si possono notare sono nella tipologia del formaggio (la ricetta attuale prevede solo ricotta) e nell’uso delle spezie, ridotte unicamente alla noce moscata.
Già altri autori in passato avevano riportato ricette di pasta con ripieno senza carne (oggi diremmo vegetariano) ma di norma prevalgono i vegetali, in particolare biete e spinaci, in cui il formaggio fa da insaporitore e legante, mentre i tortelli artusiani lo mettono al primo posto.
Forse l’esempio più antico di questa composizione del ripieno si può ritrovare quasi un secolo prima Vincenzo Corradi nel suo trattato Il cuoco galante stampato a Napoli nel 1778 in cui viene descritto un timballo composto da raviggiuoli vestiti così ripieni: “Si unisca ricotta di Vacca con parmegiano grattato, poco butirro, gialli d’uova, e qualche chiara, bietola bianchita, e tritolata, e si mescoli tutto condito di polvere di cannella, sale, e pepe”. Una volta lessati in brodo i raviggiuoli vengono inseriti nel timballo conditi con formaggio, burro e panna.
A questa ricetta seguono i più celebri Ravioli alla Romana dell’Apicio moderno del 1790 di Francesco Leonardi: “Abbiate della ricotta fresca, mescolateci allorché saranno freddi un poco di spinaci allessati, spremuti, tritati, e passate bene sopra al fuoco in una cazzarola con un pezzo di butirro, sale, pepe schiacciato, e noce moscata, aggiungeteci un pugno di parmigiano grattato, sale, pepe, e cannella fina; per ogni libbra di ricotta tre rossi d’uova crudi; mescolate il tutto insieme”.
Pochi anni più tardi, un altro grande autore, Vincenzo Agnoletti riprenderà una ricetta molto simile con i suoi Ravioli di ricotta inseriti nel suo trattato La nuovissima cucina economica (Roma, 1803) “Mescolate una libbra di ricotta fresca con quattro rossi d’uova, e due bianchi, un poco di sale, un pugno di parmegiano grattato, e un cucchiarino di cannella in polvere” in cui scompare completamente l’apporto vegetale che lascia il posto alla sola cannella (e si potrebbe scommettere che è questa spezia a cui l’Artusi fa riferimento in associazione alla noce moscata)
Fino ad ora i raviggiuoli o i ravioli si distinguono anche nella forma: non piegati a tortello, ma semplici cuscinetti a falde sovrapposte. E’ sempre lo stesso Agnoletti che, nell’edizione del Manuale del cuoco e del pasticciere (Pesaro, 1832) per primo (e unico fino all’Artusi) introduce l’idea del tortellino, riproponendo un ripieno identico a quello precedente nel Ripieno dei tortellini e cappelletti di magro, una delle molteplici varianti dei tortellini che vengono confezionati con le punte unite e sovrapposte, più o meno come siamo abituati a vederli oggi.
Prima di arrivare all’Artusi ci sono altri due autori che trattano di pasta ripiena di formaggio: il primo è Antonio Odescalchi che nel suo Il cuoco senza pretese (Como, 1834) descrive un ripieno in cui il burro sostituisce la ricotta, esasperando un tipico tratto della cucina ottocentesca portata all’estrema morbidezza dei ripieni “maneggiando un pezzo di butirro fresco con un po’ di sale e drogheria, ed una certa dose di formaggio grattato, e formandone dei rotoletti della grossezza d’un grano d’uva”. Il secondo autore è Ippolito Cavalcanti nella Cucina casereccia in dialetto napoletano (Napoli, 1837) con la sua zuppa di gravioli che riporta il ripieno “di ricotta con parmeggiano, o altro formaggio o petrosemmolo, o di ricotta semplice” in cui prevede il prezzemolo associato alla ricotta che rientra nella ricetta dell’Artusi e arriva immutato fino ai nostri giorni.
Dopo la fine dell’Ottocento si registrano altre ricette di questo tipo, ormai piuttosto consolidate sul modello artusiano, ma in generale questo tipo di preparazioni rimarranno sempre in netta minoranza rispetto ai ripieni di carne.