Articolo apparso sul Gambero Rosso on line – novembre 2018.
La pasta al dente piace alla maggioranza degli italiani, eppure non è sempre stato così. Andando a spulciare i ricettari dell’Ottocento abbiamo notato come i tempi di cottura siano decisamente cambiati nel corso degli anni.
L’origine del bizzarro metodo di saggiare la cottura della pasta
“Per capire se gli spaghetti sono cotti, se ne prende una forchettata e la si lancia sul muro: se rimangono appiccicati, allora sono pronti”. Questo consiglio è particolarmente diffuso all’estero e ancora oggi molti stranieri sono convinti che sia il metodo utilizzato dagli italiani per capire quando è il momento di scolare la pasta. Chi lo racconta è pronto a giurare di avere un cugino o un amico (meglio se amico del cugino) di origine italiana che fa proprio in questo modo. Ovviamente nessuno si sognerebbe di fare una cosa del genere nel nostro paese, ma nonostante questo, la storiella ormai è entrata a fare parte dei luoghi comuni sugli italiani e il loro modo di cucinare. Questo “affascinante”, quanto inverosimile metodo di saggiare la cottura della pasta ha probabilmente origine da un ricettario che ebbe discreta fortuna sul continente americano dal significativo titolo You can cook if you can read di Muriel e Cortland Fitzimmons, stampato a New York nel 1946. Come tutte le leggende urbane, anche questa contiene un fondo di verità, altrimenti non si spiegherebbero la sua grande longevità e diffusione.
La pasta al dente è storia recente
Il gusto per la pasta al dente è infatti frutto di una rivoluzione – alcuni direbbero conquista – relativamente recente anche nel nostro paese e se si confrontano i tempi di cottura forniti dai ricettari storici, il panorama che ne esce è piuttosto sconcertante. Già nel quattrocentesco Libro de arte coquinaria di Maestro Martino, si parla di pasta realizzata con farina, albume d’uovo e acqua che poteva essere seccata e conservata per lungo tempo, ma richiedeva tempi di cottura molto elevati. Per i vermicelli, forgiati a mano in piccole stringhe, prescrive un’ora di bollitura, mentre per i maccheroni addirittura due. E nei secoli successivi le cose non cambiano più di tanto, nemmeno con l’avvento dei primi pastifici industriali. Ma quando si è iniziato a cuocere la pasta al dente? Sicuramente non prima dell’Ottocento.
I tempi di cottura nell’Ottocento e Novecento
A partire dagli anni Trenta dell’Ottocento abbiamo contato almeno una quindicina di ricettari che riportano indicazioni sui tempi di cottura. Si parte con il consiglio di cuocere la pasta per un’ora de La cucina Faciledel 1844, ai 45 minuti de Il cuoco sapiente del 1871 per scendere a 15-20 minuti suggeriti da La vera cucina genovese di fine Ottocento e da Il cuciniere militare del 1932. Ancora nel 1913 il ricettario Come posso mangiare bene? di Giulia Ferraris Tamburini indica un’ora di cottura per i maccheroni al sugo e 20 minuti per i “maccheroni all’italiana al burro e formaggio” che però vengono sottoposti a una seconda cottura “risottata” in acqua salata o brodo. Proprio all’interno di quest’ultima ricetta compare una delle rare indicazioni sulla consistenza dei maccheroni, da scolare solo “quando si disfano facilmente sotto la pressione delle dita”, mentre Francesco Chapusot ne La cucina sana, del 1846 lessa i “maccheroni alla piemontese” per 45 minuti fino a farli diventare “molli e pastosi”. A ciò bisogna sommare il fatto che fino alla prima metà del Novecento solo le paste più pregiate erano composte unicamente di grano duro (che notoriamente conferisce maggiore tenacia alla pasta) mentre le più comuni avevano percentuali di grano tenero che poteva superare il 50 per cento, con una evidente ricaduta sulla consistenza della pasta.
Alcune voci fuori dal coro (soprattutto nel Mezzogiorno)
All’interno di questa tendenza generale, esistono alcune voci in controtendenza, come quella di Ippolito Cavalcanti che nel 1837 consiglia di scolare gli spaghetti “vierdi vierdi”, ovvero acerbi, un termine utilizzato quando ancora non si usava chiamarli “al dente”. Non è un caso che il ricettario sia scritto da un napoletano perché è dal Mezzogiorno che ha inizio l’abitudine di scolare la pasta quando mostra ancora una certa tenacia. Con il passare del tempo, questa rivoluzione gastronomica ha risalito lo stivale per affermarsi definitivamente nel Settentrione solo nel secondo dopoguerra, ma all’estero la moda della pasta al dente ha difficoltà ad attecchire ancora oggi. Basti pensare che solo un anno fa ha fatto il giro del mondo la notizia di un cuoco bolognese licenziato da un ristorante francese perché cuoceva gli spaghetti troppo poco.
Perché la pasta al dente non piace all’estero
La spiegazione deve essere ricercata nelle massicce migrazioni di italiani all’estero iniziate nella seconda metà dell’Ottocento. Un esodo imponente che trasferisce fuori dai nostri confini, non solo un’enorme massa di persone, ma l’intera cucina di una nazione, inclusi prodotti, ricette e modi di cucinare. Ovviamente all’estero si radica la gastronomia dei nostri avi e per decenni le loro abitudini gastronomiche rimangono chiuse all’interno delle comunità italiane, perpetuando gli stili di cucina di un tempo. Solo in seguito la cultura culinaria italiana viene contaminata e diffusa nei paesi ospitanti, tanto da avere un esito evolutivo diverso rispetto a quello italiano: può capitare anche di trovare versioni di piatti antichi ormai completamente scomparsi in Italia dovute al fatto che all’estero si sia mantenuto un maggiore spirito di conservazione. E torniamo così agli spaghetti lanciati sul muro: probabilmente questa leggenda trova una spiegazione nell’abitudine degli emigrati italiani di cuocere molto la pasta fino a farla diventare appiccicosa, come voleva la tradizione tra fine dell’Ottocento e inizio del secolo successivo. In buona sostanza, se dovete proprio trovare il colpevole della pasta scotta all’estero, questo è vostro trisnonno che è emigrato in cerca di fortuna. Abbiate clemenza.