Articolo apparso sul Gambero Rosso online – novembre 2018
Il pomodoro è di origine americana ed è stato tra i primi prodotti a essere portato in Europa, ma non per questo la sua introduzione nella cucina è stata immediata. Tantomeno l’incontro con la pasta.
Buitoni, l’imprenditore italiano che tutti conosciamo, nel 1940 ebbe un’idea visionaria e senza precedenti: quando inaugurò un proprio ristorante a Times Square, ideò un nastro di cuoio che trasportava porzioni di spaghetti al sugo direttamente al tavolo. Pagando 25 centesimi, il cliente poteva accedere al ristorante attraverso un cancello girevole e mangiare spaghetti al sugo a volontà. Il nastro trasportatore e la formula “all you can eat” applicata al cibo italiano per eccellenza, a New York nel 1940, danno la misura della diffusione della pasta al pomodoro a livello internazionale. Ma qual è la storia del connubio più famoso della gastronomia italiana, ovvero pasta e pomodoro?
Le prime descrizioni del pomodoro in Europa
La prima descrizione europea del pomodoro pare si debba al medico senese Pietro Andrea Mattioli che ne traccia un ritratto a metà del Cinquecento. Il frutto proveniente dal Nuovo Mondo viene trattato con estremo sospetto, tanto da essere inserito all’interno del capitolo dedicato alla mandragora che, in effetti, appartiene alla famiglia delle solanacee come il pomodoro e condivide con questo la proprietà di generare frutti di colore giallo-arancione, ma è una pianta altamente tossica e nel passato gli si attribuivano poteri magici e curativi. Nonostante questa presentazione, Mattioli afferma che il pomodoro si possa mangiare come i funghi e le melanzane, ovvero “volgarmente fritte nell’olio, con sale et pepe”
Il pomodoro entra nei ricettari
Per più di un secolo le opinioni sul pomodoro non si discostano di molto da questi giudizi e vengono veicolate unicamente dai medici del tempo, fino a che il marchigiano Antonio Latini, cuoco di corte del Viceré spagnolo a Napoli, pubblica una “Salsa di Pomadoro, alla Spagnuola” nel suo ricettario datato 1692. La ricetta è semplice e interessante per l’influenza che avrà sulle preparazioni dei secoli successivi: i pomodori abbrustoliti sulle braci vengono pelati e tritati insieme a cipolla, peperoncino e timo, infine conditi con sale, olio e aceto. La salsa viene utilizzata per accompagnare in tavola i piatti di carne. Il riferimento alla Spagna del titolo della ricetta è dovuto al fatto che questo paese rappresentava la porta d’ingresso per i prodotti provenienti dalle Americhe e l’uso del pomodoro a tavola era già piuttosto diffuso rispetto all’Italia.
Il ruolo di Napoli
Non stupisce poi che la via di penetrazione nel nostro paese sia passata proprio da Napoli che all’epoca era una potente e fiorente città, ricca di commerci e scambi culturali, seconda città del Mediterraneo per dimensioni solo dopo Istanbul. Tra l’altro, in virtù della dominazione spagnola che durava dai primi del Cinquecento, la capitale partenopea rappresentava una via privilegiata per il contatto tra i due paesi e quindi con le colonie d’oltreoceano, anche dal punto di vista dei costumi alimentari. L’associazione tra Napoli e il pomodoro che perdura tutt’oggi non è quindi casuale, ma frutto di una storia plurisecolare.
La salsa al pomodoro
Per oltre un secolo la salsa di pomodoro viene utilizzata nelle più svariate preparazioni, come quelle presentate da Francesco Leonardi alla fine del Settecento che descrive, tra le altre, le ricette delle “Tartarughe terrestri al culì di pomidoro”, e della “Zuppa di pere in salsa di pomidoro” azzardando un accostamento degno di una cucina sperimentale odierna. Ma nonostante la piena affermazione del frutto americano sulle tavole italiane, fino a questo momento non interessa ancora i piatti di pasta, dove ci sembrerebbe naturale trovarlo.
Il primo incontro tra il pomodoro e la pasta
La prima combinazione tra il pomodoro e la pasta la troviamo pochi anni più tardi nella Cucina Economicadi Vincenzo Agnoletti del 1803. L’autore descrive una zuppa, ovvero una minestra in brodo in cui la pasta di piccolo formato, viene prima “imbianchita”, ovvero sbollentata in acqua, poi cotta in brodo che può essere insaporito anche con sugo di pomodoro. La pasta prende il posto del più canonico riso, molto utilizzato all’epoca in questo genere di preparazioni. Lo stesso piatto viene successivamente descritto pochi anni più tardi in una ricetta della rivista francese “Almanach des gourmands”che può essere considerata la capostipite delle guide gastronomiche odierne.
La pastasciutta al pomodoro
A introdurre il pomodoro in un piatto di pastasciutta è invece sempre Francesco Leonardi nella seconda edizione dell’Apicio Moderno, ristampato nel 1807-08. La ricetta dei Maccaroni alla Napolitana riporta la variante del sugo di pomodoro all’interno della preparazione. Questo arricchimento dell’intingolo avrà un grande successo e, nel giro di qualche decennio, diverrà la norma per la realizzazione di quello che oggi è il ragù alla napoletana. La ricetta, apparentemente più semplice degli spaghetti al sugo viene registrata solo trenta anni più tardi ancora per merito di un altro autore napoletano, confermando la secolare tradizione di apripista nei confronti di questo ortaggio: Ippolito Cavalcanti nel 1837 pubblica la Cucina teorica-pratica,un ricettario molto particolare in cui la seconda parte, dedicata alle ricette popolari, è scritta interamente in dialetto napoletano. Questa molto probabilmente è la prima pubblicazione degli spaghetti al pomodoro come pastasciutta “all’italiana”.
La ricetta degli spaghetti al pomodoro in napoletano (con traduzione)
“Vermicielli co le pommadore. Quann’è lo tiempo, pigliarraje tre rotola de pommadore, le farraje cocere, e le passaraje; po piglia no terzo de nzogna, o doje mesurelle d’uoglio, lo faraje zoffriere co na capo d’aglio, e lo miette dint’a chella sauza. Doppo scauda doje rotola di vermicielli, e vierdi vierdi li levarraje, e nce li buote pe dinto: falle chini di pepe, miettence lo sale, e poi vide che magne”. Che in italiano sta a significare: Spaghetti al pomodoro. Quando è la stagione, prenderai 2,7 chili di pomodori, li farai cuocere e li passarai; poi prenderai 1 etto di strutto, oppure 2 decilitri di olio, lo farai soffriggere con una testa d’aglio e lo metterai dentro alla salsa. Lessa 1,8 chili di spaghetti, scolali quando sono al dente e buttali nella salsa; riempili di pepe, aggiungi il sale e vedrai cosa mangi.
Salta immediatamente all’occhio la modernità di questa preparazione in cui la semplice passata di pomodoro, viene insaporita unicamente da olio o strutto (a seconda del periodo dell’anno, se di grasso o di magro), aglio e pepe. A distanza di qualche decennio questo piatto godrà già di un’enorme fortuna anche fuori dai confini campani, conquistando il consenso dell’intera Penisola. E l’apertura definitiva verso l’estero sarà accelerata grazie alle innovazioni apportate dall’industria conserviera, che hanno reso la salsa di pomodoro disponibile tutto l’anno in un formato semplice da trasportare. Da questo momento in poi la pasta al pomodoro diventa un vero e proprio simbolo della cucina italiana.