Articolo apparso sul sito Dissapore il 17 settembre 2021
La cozza romagnola viene usata per rimpolpare produzioni di mitili ben più famosi, ma sta cercando un proprio spazio sul mercato.
Quante cozze esistono in Italia? Anche andando a memoria possiamo contare la tarantina, la pelosa, la salentina, il pedocio triestino, la cozza di Olbia, quella del Golfo di Napoli e il mosciolo selvatico di Portonovo, solo per citare le più famose. Tra queste ne manca una che è molto apprezzata a livello gastronomico ed è curiosamente compresa tra due territori insigniti da tempo di una DOP, la Cozza di Scardovari (sul Delta del Po) e più a Sud il presìdio Slow Food del mosciolo selvatico di Portonovo nel promontorio del Conero. Ecco, proprio nel mezzo, in un limbo di anonimato, c’è la cozza romagnola.
Nasce nella zona di maggiore produzione di mitili della Penisola, ed è per questo molto ambita dai produttori assai più blasonati, che ne apprezzano la qualità e le caretteristiche organolettiche ben guardandosi dal nominarla. Insomma, sarà capitato a tutti di mangiare cozze romagnole senza saperlo.
“Spesso le vendiamo anche a note aree di produzione italiane – spiega Mauro Silvestri Presidente della Cooperativa Pescatori di Cattolica e allevatore cozze egli stesso – perché non sempre ci sono le condizioni adatte all’accrescimento del prodotto locale, per cui prendono quelle romagnole, le mettono a bagno da loro per mantenerle e poi le vendono. Se lo dici ai consumatori locali non ci credono, ma i produttori lo sanno”.
Con 22 mila tonnellate di produzione annuale la cozza romagnola copre un terzo dell’intera produzione nazionale, per cui non è difficile trovarla fuori dal proprio territorio di produzione, magari venduta nel Golfo di Taranto, sulla riviera ligure, o in altri territori famosi per le loro cozze, utilizzata per sostituire in parte la produzione locale.
D’altronde è un male comune anche alla grande distribuzione che ha bisogno di un prodotto costante tutti i periodi dell’anno, quando si sa che la cozza è stagionale e dà il meglio di sé tra aprile e settembre, ma vuole esibire l’etichetta di un prodotto “italiano”, per cui ricorre al classico escamotage dell’importazione con breve permanenza sul nostro territorio. Quando sull’etichetta si legge “Allevata in Spagna e raccolta in Italia” non significa che la cozza è migrata naturalmente sulle nostre coste ma, nella maggioranza dei casi, viene acquistata all’ingrosso da grandi allevamenti spagnoli – in particolare galiziani – e portata nel nostro mare dove di solito rimane meno di un mese prima di essere messa in commercio.
Per trovare un proprio spazio sul mercato il Consorzio Mitilicoltori dell’Emilia-Romagna ha registrato il marchio collettivo “Cozza Romagnola”, con l’intento di raggiungere una propria riconoscibilità riunendo sotto un unico marchio gli allevatori che vanno da Goro a Cattolica, come ci spiega il Presidente del Consorzio Giuseppe Prioli: “Le cozze romagnole hanno alcune caratteristiche comuni, come il sapore sapido e salmastro, unito a una nota particolarmente dolce dovuta all’influenza delle acque del Po in questo tratto di mare. Mano a mano ci si allontana dalla sua foce si possono distinguere tre ambienti: quello di Ferrara, quello di Ravenna e quello di Rimini-Cattolica in cui si alza la salinità del mare e, di conseguenza, quella della cozza, ma mantiene comunque delle note organolettiche piuttosto simili; d’altronde tutte le cozze presentano un grado di variabilità nel gusto che dipende anche dal momento dell’anno in cui viene raccolta”.
Lo scopo del consorzio è fare conoscere ed apprezzare la cozza romagnola attraverso un’etichettatura chiara che possa orientare i consumatori come ribadisce il Presidente del consorzio: “Vorremmo valorizzare la nostra cozza e la filiera che rappresenta perché spesso la romagnola viene venduta ad altri allevamenti a 50/60 centesimi, anziché direttamente sul mercato al consumo a prezzi più che doppi: in questo momento stiamo continuando a fornire alla concorrenza un prodotto di alta qualità solo perché il consumatore non può ancora scegliere direttamente la cozza romagnola”.
A questo scopo entrano in scena anche gli chef che apprezzano e utilizzano questo tipo di prodotto, come spiega Massimiliano Poggi, il cuoco bolognese eletto da pochi giorni presidente dell’associazione Chef to Chef: “La cozza romagnola raccolta nella stagione adatta ha una qualità davvero alta e si percepisce immediatamente la profondità e l’ampiezza di gusto davvero particolari, per esempio, a differenza del più blasonato mosciolo di Portonovo – prosegue Max Poggi – la cozza romagnola rimane più dolce e dal punto di vista della lavorazione in cucina l’acqua di mare che trattiene tra le valve può essere utilizzata in purezza, mantenendo nel piatto la complessità di aromi che si sprigionano, mentre quella del mosciolo deve essere tagliata a causa dell’eccessiva salinità”.
La cozza rappresenta il mollusco più povero e meno valorizzato dei litorali italiani, con prezzi molto ridotti anche a banco, ma proprio per questo ha doti tutte da scoprire e il crescente interesse degli ultimi anni per questo tipo di specie ittiche molto comuni è dovuto alle loro enormi potenzialità espressive e allo stretto legame che mantengono con la cucina tradizionale.
Un esempio recente è quello dello sgombro, pesce povero per eccellenza che è entrato nelle grazie dei grandi chef per le sue carni grasse e molto saporite, adatte a cotture millimetriche che ne esaltano le caratteristiche senza pregiudicare la consistenza. Allo stesso modo la cozza ha tutte le caratteristiche per essere considerata un ingrediente prezioso con cui elaborare nuove combinazioni di sapori, mostrando un lato inedito che può superare la tradizionale visione del frutto di mare da servire con la manciata di ricette che vengono usate di solito (tutte buonissime, per carità).
Al di là del puro aspetto gastronomico non dobbiamo nemmeno dimenticare che l’allevamento della cozza è altamente sostenibile con un impatto ambientale vicino allo zero -a differenza di molte altre specie ittiche- anzi sostiene una serie di servizi ecosistemici, tra cui il sequestro della CO2 nelle valve e la riduzione dell’eutrofizzazione della fascia costiera.
È buona, gastronomicamente duttile e fa bene all’ambiente: cosa chiedere di meglio?