Recensione apparsa sul sito Dissapore il 13 dicembre 2021
Siamo tornati in uno al Diana, uno dei ristoranti più celebri di Bologna, dopo una profonda ristrutturazione e quasi due anni di pandemia.
Sicuramente vi è capitato di rivedere un amico dopo qualche anno e accorgervi che non è minimamente invecchiato: probabilmente è in quell’età in cui i cambiamenti sono davvero impercettibili e si rimane sospesi nel tempo. Oddio qualche acciacco l’avrà pure lui, ma l’avete trovato in grande forma. Ecco, è l’impressione che si ha varcando le porte del Diana di Bologna dopo tanto tempo e non sono passati solo anni, ma anche una bufera notevole causata dal riassetto del locale dovuto alla cessione della parte affacciata su via Indipendenza dove storicamente era collocata l’entrata del ristorante.
Tre anni fa la riapertura, preceduta da una ristrutturazione che ha dato una diversa dislocazione a sale e servizi, a cui è seguita l’enorme crisi di tutto il settore dovuta alla pandemia. Il timore che potessero essere colpi fatali per una signora ultracentenaria era fondato, invece ecco lì il Diana, pronto ad accoglierci in tutto il suo antico splendore. Stavolta si entra dalla laterale via Volturno, ma niente sembra cambiato, dal parquet dei pavimenti, al tovagliato bianco avorio, fino alle giacche candide del personale di sala, anche se di volti noti ne sono rimasti sì e no due o tre.
Appena seduti veniamo accolti da una striscia di mortadella grigliata che nella forma ricorda un regolo da 10 con glassa di aceto balsamico e un calice di prosecco. Non so se avete mai grigliato la mortadella, ma vi consiglio di provare anche a casa, anzi, dovrebbe essere scritto sulle confezioni: grigliare prima dell’uso. Fidatevi, mi direte.
Sul menu si scoprono degustazioni interessanti a prezzo molto ragionevole come la “Due torri” a 40 euro e “Piazza maggiore” a 45, insieme a piatti che accontentano un po’ tutti, ma è chiaro che il locale ruota tutto sul perno della bolognesità più dura e pura, senza la quale avrebbe poco senso di esistere. La carta dei vini, divisa tra il territorio, etichette nazionali e bollicine non è particolarmente estesa e riporta una scelta classica di grandi cantine, senza molti spunti fuori dall’ordinaria amministrazione.
Per iniziare una galantina di pollo (12 euro) della buona memoria petroniana: un piatto di credenza sempre più difficile da scovare nei ristoranti che viene servito con piccolissimi dadi di gelatina e qualche quenelle di insalata russa. Onesta e delicata, un’esecuzione perfetta che però non esalta.
Ai primi si presentano due cavalli di battaglia come i tortellini in brodo (14 euro) e le lasagne (14 euro), giusto per tarare il termometro della tradizione, anche perchè ormai siamo sotto le feste e da qualche parte bisognerà portare la zia o la fidanzata. Niente da dire, i tortellini rimangono identici a sé stessi, un “Diana Style” che non delude, ovvero dalle dimensioni leggermente fuori dalla norma (che li prevederebbe piccolissimi) che li collocano nel percentile più alto, così come il sapore, pieno, sapido e profumato in cui prevale il sentore dei salumi. Il brodo è corretto, ma passa in secondo piano rispetto alla pasta rotonda e gravida degli umori della carne.
Le lasagne si piazzano a podio tra quelle che si trovano nei ristoranti bolognesi e anche l’amico Tassinari, parco di giudizi, gli appioppa un 8 e mezzo. La canonica pasta verde di buon corpo è gonfia di ragù che non lascia tracce d’unto e rifugge il colore carico del pomodoro, un impatto ammansito dalla giusta dose di besciamella e parmigiano, per un grande piatto della tradizione.
Si continua con una superba cotoletta alla bolognese (18 euro) cucinata con tutti i crismi, di giusto spessore, panatura corretta e rifinitura perfetta, peccato solo per quel filo di brodo di troppo all’interno del piatto che, se va bene in cottura, stona al tavolo. Il gran fritto misto “Diana” (18 euro) è eseguito egregiamente, ma lascia perplessi la scelta degli ingredienti, nell’ordine: 3 olive all’ascolana (buone, per carità, però…), un’ottima costoletta di agnello, una crocchetta con il prosciutto, due cubetti di crema fritta, un dischetto di mela e delle favolose zucchine fritte. Spezzo una lancia a favore della crema con un leggero sentore di liquore all’anice che ne esalta i profumi (tra le migliori che abbia mai assaggiato), ma la speranza era di trovare anche altre specialità, come le cervella, i carciofi, la salvia, la mortadella, oltre allo stecco petroniano e così via. In compenso il carrello dei bolliti, che stavolta non abbiamo provato, è davvero ricco ed invitante e lo ricordiamo di altissimo livello.
Fenomenale, come sempre, il gelato di crema con le amarene Fabbri (8 euro) e la torta di riso (8 euro) che soffre solo perché non trova una collocazione sensata nell’impiattamento insieme a more di rovo e mirtilli giganti. Per il resto la ricetta è canonica, anche se manca il profumo di mandorla amara che ci sarebbe stato bene (ma parliamo di quisquilie).
In complesso, non solo la vecchia signora si difende ancora molto bene, ma dimostra di essere saldamente dentro a quel manipolo di templi della tradizione gastronomica cittadina che vale la pena di frequentare. Un ristorante che non ha sorprese, se non positive, per cui se verso Natale siete indecisi, potete puntare senza timore sulla nuova entrata di via Volturno e non rimarrete delusi
Opinione
trattorieristoranti
Un ristorante ultracentenario che porta magnificamente i suoi anni e rimane saldamente ancorato alla parte alta della classifica, compreso tra i pochi templi della gastronomia cittadina. Un piacere ritrovarlo in grande spolvero anche dopo anni non facili e una profonda ristrutturazione alle spalle.
PRO
- Si può trovare la cucina tradizionale bolognese ai massimi livelli
- L’ambiente è piacevolmente elegante, quel classico che no passa mai di moda
CONTRO
- Su alcuni piatti potrebbero essere corrette piccole sbavature
- La carta dei vini meriterebbe di essere ampliata, anche con etichette meno scontate e più interessanti
VOTO DISSAPORE: 8 / 10