Articolo apparso sulla pagina della rivista Gambero Rosso – Ottobre 2018
I maccheroni alla napoletana (dolci) di un tempo
Provate a immaginare di tornare indietro alla metà del Cinquecento e assaggiare un piatto di maccheroni alla napoletana: cosa pensate che vi trovereste davanti? Se ci basiamo sulla descrizione di Cristoforo Messisbugo, storicamente una delle prime, rimarreste sorpresi da un piatto di spesse tagliatelle fatte con farina, mollica di pane e zucchero impastati con uova e acqua di rosa. Secondo l’usanza del periodo, questa pasta dalla consistenza morbida e gusto spiccatamente dolce, veniva poi cotta nel brodo e servita con zucchero e cannella come piatto a sé stante oppure come “contorno” al lesso di cappone. All’epoca, oltre a zucchero e spezie (per chi se li poteva permettere), l’unico condimento utilizzato per la pasta era costituito da burro e formaggio grattugiato. I piatti di pasta in cui si potevano trovare altri ingredienti, tra cui anche la carne, erano invece quelli destinati ad andare in forno, secondo l’antica tradizione delle lasagne inaugurata già nel Medioevo.
La comparsa del ragù, ma non nei maccheroni
La “pastasciutta” non era diffusa come lo è oggi, mentre erano preferite le paste in brodo o da forno che, nel Settecento si evolveranno in timballi e pasticci. Il primo cuoco che riporta la ricetta del timballo di maccheroni in crosta è Vincenzo Corrado ne “Il cuoco galante” del 1773 ed è lo stesso che nomina probabilmente per la prima volta in Italia il ragù. Con questo nome, di chiara derivazione francese, non si intende affatto un condimento per la pasta, ma una vivanda a sé stante che oggi potremmo paragonare a uno spezzatino o a un brasato. Il Corrado ne descrive diversi, dal ragù di petto di vitello a quello di animelle, fino al ragù di gamberi o uova. Il piatto in genere prevedeva una prima rosolatura in burro, lardo o olio, poi una cottura in brodo o vino con ortaggi ed erbe aromatiche. Spesso, ma non è una regola universale, a fine cottura si aggiungeva succo di limone, o più raramente aceto, per aumentare l’acidità del piatto. Il ragù era una preparazione molto versatile e utilizzata per insaporire altre vivande, oppure per formare un ripieno, ma non veniva ancora associato alla pasta.
Quando la carne incontra la pasta
Principio che viene confermato, anche se solo in parte, nella monumentale opera in sei volumi di Francesco Leonardi, autore de “L’Apicio moderno”, dato alle stampe la prima volta a Roma nel 1790. Qui si ritrovano nuovamente i Maccaroni alla Napolitana in cui appare un condimento simile all’attuale ragù alla napoletana, ma ancora allo stato embrionale: dopo la lessatura i maccheroni vengono conditi con parmigiano, pepe e sugo di vitello o manzo (ovvero il sugo ristretto ottenuto dalla stufatura di un grosso pezzo di carne), poi fatti riposare sopra la cenere calda e serviti. La cosa interessante è che tra la prima e la seconda edizione del ricettario, Leonardi inserisce una nota importante per la storia della gastronomia, ovvero la possibilità di aggiungere il sugo di pomodoro all’intingolo di carne stufata.
L’origine del ragù napoletano
La definitiva conferma di questo modo di condire la pasta arriva qualche anno più tardi nel ricettario “La cucina casereccia” stampato a Napoli da un anomimo autore che si firma con le solo iniziali M.F. Questo si può considerate il prototipo più antico del ragù napoletano: i maccheroni lessati e cosparsi di formaggio grattugiato si condiscono “con buon brodo di ragù, dove sieno stati cotti i pomidoro”. Nella ricetta il ragù è ottenuto con un grosso pezzo di manzo steccato con prosciutto e chiodi di garofano, fatto rosolare con cipolla, prosciutto, lardo ed erbe aromatiche e infine cotto nel brodo con l’aggiunta di pomodoro. Il termine “ragù” designerà ancora per molto tempo un piatto di carne in intingolo e con questo significato si ritrova curiosamente anche nel libretto della Bohème di Puccini. Per condire la pasta si utilizza quindi solo la parte liquida che si forma durante la cottura, mentre la carne si consuma a parte.
La ricetta, con minime varianti, sarà ripresa da Ippolito Cavalcanti nella “Cucina teorico pratica” del 1837, forse il più famoso ricettario napoletano antico (che, tra le altre cose, registra per la prima volta gli spaghetti al pomodoro). Successivamente si alterneranno versioni dello stesso piatto con o senza l’aggiunta di pomodoro e solo nel corso del Novecento questo ingrediente entrerà stabilmente nella ricetta. Contemporaneamente verranno introdotte delle varianti, come l’introduzione della carne di maiale, inizialmente non contemplata.d
E il ragù alla bolognese?
Mentre il ragù alla napoletanaera già pienamente affermato sulla scena culinaria, quelloalla bolognese non dava ancora segni di vita. Nel“Cuciniere italiano moderno” di metà Ottocento si trova però unaricetta molto interessante per ricostruirne i primordi, quella deiMaccheroni alla famigliare. In questo caso il sugo di braciole o stufato viene arricchito con un battuto di midollo e prosciutto a cui si aggiunge il pomodoro. La vera novità sta nel suggerimento di prendere la carne avanzata dalla cottura, tritarla e aggiungerla al condimento: anche se il piatto principale continua ad essere la carne da sola, la pastasciutta nella sua dimensione più domestica sta lentamente acquistando un proprio peso specifico all’interno del pasto ed emerge l’esigenza di condirla adeguatamente.
A partire da questo momento nei ricettari faranno capolino altre preparazioni che utilizzano la medesima logica per i propri condimenti di cui appare chiara la derivazione meridionale. Il primo è il torinese Francesco Vialardi nella “Cucina borghese” del 1863 con gli immancabili Maccheroni alla napoletana che vengono serviti insieme a piccoli involtini di carne di vitello ripieni e i Maccheroni alla sardaper i quali prevede un condimento a base di carne di vitello tagliata a dadini soffritta nel burro con la cipolla e pomodoro fresco. In quest’ultima ricetta ci sono ormai tutti i presupposti per il ragù “alla bolognese”: la carne entra direttamente nel piatto, superando la logica che la voleva consumata a parte, e il sugo di carne viene sostituito completamente dal solo soffritto di cipolla e dai pomodori. Ma se ci si fermasse qui, probabilmente oggi si parlerebbe del ragù alla sarda e non di quello bolognese.
I maccheroni alla bolognese di Pellegrino Artusi
Sarà Pellegrino Artusi, con il celebre “La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene”, a descrivere i Maccheroni alla bolognese (l’autore ancora non parla di ragù perché il termine all’epoca doveva generare ancora ambiguità), in cui compare un vero e proprio “proto-ragù” a base di pancetta di maiale salata e carne di vitello insaporite con sedano, carota e cipolla, il tutto tirato a cottura con brodo di carne. Artusi suggerisce anche alcune aggiunte per arricchire questo condimento: funghisecchi, tartufo, fegatinidi pollo e pannache, insieme al latte, avrà fortune alterne all’interno del ragù fino ai giorni nostri. Un ragù bianco in cui non trova posto il pomodoro, ma ricco e saporito, come voleva la tradizione bolognese.
Dopo una fase instabile durata quasi un ventennio, la trasformazione definitiva avviene allo scadere del primo decennio del Novecento quando quasi tutti gli autori opteranno per la sostituzione delle tagliatelle al posto dei maccheroni (variante già suggerita da Artusi) e per l’inserimento costante del pomodoro. A completare gli ingredienti del ragù, infine la carne di maiale fresca, ma solo nel secondo dopoguerra, come riporta il celebre “Il cucchiaio d’argento” proponendo una ricetta che è rimasta sostanzialmente invariata fino ad oggi. Ricetta che però non corrisponde con quella depositata nel 1982 alla Camera di Commercio di Bologna dalla Delegazione di Bologna dell’Accademia Italiana della Cucina. Ma forse anche questo è il bello delle cucine locali e delle ricette che variano di casa in casa.